Inaugurazione
mercoledì 30 settembre, h 19,00
Scalinata Borghese
Genova

Architettura in/comunicazione

Segni e significati architettonici nella cultura di massa

Katia Perini -Giorgio Tona

Il primo uomo che intrecciò pochi arbusti per crearsi un riparo dal vento e dalla pioggia
collocò inconsapevolmente la neonata disciplina architettonica in una posizione intermedia
tra funzione e segno formale: se, da una parte, mai egli si sarebbe dedicato alla rudimentale costruzione
senza l’urgenza di un riparo, dall'altra è indubbio che, da quel momento in poi, la
forma da lui creata avrebbe automaticamente evocato e comunicato sicurezza e protezione, a
tal punto da poter oggi interpretare tutta l’architettura classica e neoclassica come una traduzione
litica del vocabolario ligneo della capanna primitiva.
Come afferma Umberto Eco (La struttura assente, 1968), un manufatto comunica e promuove
la funzione per cui è stato creato (“la scala mi stimola a salire”), purché l’osservatore sia “educato”
a rispondere allo stimolo, cioè possieda nel suo bagaglio socio-culturale gli strumenti
per interpretare correttamente un segno (“si impara a salire, e quindi si impara a rispondere allo
stimolo”). Scrive Eco: “Un oggetto che intenda promuovere una nuova funzione potrà contenere
in se stesso, nella sua forma, le indicazioni per decodificare la funzione inedita, solo a
patto che si appoggi a elementi di codici precedenti [...]. In caso contrario l’oggetto di architettura
non rimane più oggetto funzionale ma diventa opera d'arte: forma ambigua che può essere
interpretata alla luce di codici diversi”. L’architetto ha la possibilità (dovere morale?) di
ricercare risposte innovative e sempre più efficaci alle necessità dell’uomo, a condizione che rispetti
il codice socio-culturale di base dell’ambiente all'interno del quale interviene: deve “capire”
le persone prima ancora di “soddisfarle”, come ha sottolineato Renzo Piano in
un'intervista (Abitare 491, aprile 2009). Esemplari, da questo punto di vista, sono le case di
emergenza progettate dal giapponese Shigeru Ban per differenti zone nel mondo devastate da
calamità naturali: sostanzialmente identiche le une alle altre, vengono adattate ad ogni contesto
regionale modificando la forma della copertura (a falde inclinate in Giappone e in Turchia, a
volta in India) in modo da consegnare, nei limiti dell’edilizia temporanea, un manufatto che si
avvicini il più possibile all’idea che la popolazione di una specifica area geografica ha dell’oggetto-
casa.
Nel panorama internazionale dell’architettura contemporanea, tuttavia, non sono rari i casi
di progetti pensati più come “opere d'arte”, nell'accezione offerta da Eco, che come oggetti capaci
di comunicare con la società e l’ambiente circostanti; privi, cioè, di un repertorio di segni
decodificabili da chi li osserva e utilizza.
L’architettura diventa uno scenario che l'uomo non riesce a vivere se non come osservatore distaccato,
come sottolineato nell'emblematico commento di Oriol Bohigas sulla Torre Agbar
di Jean Nouvel a Barcellona: “Penso che sia un edificio molto bello, ne penso bene, ma ho dovuto
accettare che tutta l’architettura contemporanea, in tutto il mondo, sia un disastro, una
scenografia assolutamente inutile; dopo aver accettato questo fatto, che ritengo attuale e irrimediabile,
mi pare che sia un edificio bello” (Lotus 121, settembre 2004).
“Gli esseri umani hanno bisogno di riconoscere qualcosa di loro stessi nell'ambiente in cui vivono”,
sosteneva Walter Benjamin nella prima metà del XX secolo mentre auspicava il ritorno
degli uomini ad un “bozzolo” di spazi abitativi che riflettesse il loro spirito; oggi, a quasi cento
anni di distanza, la situazione non pare essere migliorata dato che il grido di allarme giunge
dall'interno dello stesso mondo dell'architettura, con un portavoce apparentemente pentito
quale Rem Koolhaas: “Ci hanno chiesto di fare edifici spettacolari, di cui si parlasse, che fossero
architetture urlate. Forse per noi sarebbe meglio tornare ad architetture più composte,
più ragionate e meno spettacolarizzate [...]. Dobbiamo recuperare l’impegno sociale delle architetture
degli anni Sessanta, quando si costruiva non perché se ne parlasse, ma per dare
case” (Corriere della Sera, 7 aprile 2009). Le riviste specializzate traboccano di architetture urlate
e non è un caso che i progettisti dall'ugola più potente vengano soprannominati archistar,
inseguiti da cronisti e recensori quasi fossero personaggi dello spettacolo, della cui vita ogni
aspetto diventa gossip, o artisti a cui tutto è concesso nella tela sconfinata dello spazio urbano.
Specchio delle difficoltà comunicative tra architettura contemporanea e società è il mondo
degli spot promozionali. È interessante notare come, nel linguaggio pubblicitario in cui niente
è lasciato al caso, lo stereotipo della “casa moderna” (bianca, minimalista, con ampie superfici
vetrate) oscilli in balia di alterne fortune: mentre in alcuni casi è preso come simbolo di modernità
e rispetto dell'ambiente (Citroën C3), in altri completa il triste paesaggio di un mondo glaciale
da cui si può solo desiderare di fuggire (BMW serie 5 xDrive); il compito di trasmettere
sensazioni di genuinità e serenità è tuttora affidato, generalmente, all'architettura tradizionale
(Mulino Bianco): è la città storica, infatti, con la sua materia consumata dal tempo ma per
questo viva, la realtà architettonica che con più facilità viene decodificata attraverso le categorie
interpretative di cui la società è già in possesso. Significativo da questo punto di vista è lo spot
realizzato per la Ford Kuga: in una città che ha mantenuto le sue forme consuete ma ha perso
colore e materia (tutto è bianco e pulito come in un modello di gesso) la speranza di ritrovare
la felicità è legata all'arrivo dell’auto reclamizzata, unico oggetto che ha mantenuto la sua originale
fisicità, e più implicitamente alla prospettiva di colorare, personalizzare, vivere e inevitabilmente
consumare i muri degli edifici, sottraendoli così al loro tanto moderno e digitale ma
anche tanto freddo e asettico candore.
“Ogni civiltà ha costruito case che rappresentavano un modo di pensare e vivere; i nostri architetti
fabbricano alloggi e mausolei per futuri cadaveri [...]. L’architettura non è merce da buttare
quando è passata di moda ma è l’ambiente naturale di vita dell’uomo, e farne uno scenario
da film di cartapesta significa distruggere le basi su cui è nata la città europea e tutta la sua civiltà
ed anche la percezione che l’uomo ha di se stesso nel proprio ambiente” (Angelo Crespi).

 

Bibliografia

Abitare n. 491 (aprile 2009), Editrice Abitare Segesta, Milano.
U. Eco, La struttura assente, Bompiani, Milano, 1968.
Lotus International n. 121 (settembre 2004), "Progetto/Contesto", Editoriale Lotus, Milano.
Lotus International n. 126 (novembre 2005), "Camouflage", Editoriale Lotus, Milano.
P. Pagliardini, Architetti, moda, pubblicità, da http://www.de-architectura.com/.
E. Rocca (a cura di), Estetica e architettura, Il Mulino, Bologna, 2008.