Costruire in/comunicazione
Comunicare attraverso l’architettura costruita
Antonio Lavarello
L’architettura contemporanea può essere causa di incomunicabilità? Volgendo la domanda
in positivo, agli edifici che progettiamo può essere attribuito il ruolo di mezzi di comunicazione?
Non ci riferiamo alla comunicazione intrinseca e specialistica attraverso la quale ogni costruzione
manifesta, agli “addetti ai lavori”, i principi progettuali che l’hanno generata; non parliamo
neppure del livello puramente emozionale: non è in discussione il fatto che ogni edificio susciti
reazioni emotive nelle persone. La questione riguarda piuttosto la comunicazione di un contenuto
altro da sé e rivolto ad un pubblico generico, all’uomo in quanto tale e non ad altri architetti.
Partiamo da alcune considerazioni più generali per arrivare ad una rapida ricognizione nell’attualità.
Secondo una definizione personale ma non troppo azzardata l’architettura è l’arte
di dare forma allo spazio secondo le necessità umane; forma, spazio e uomo e i rapporti che instaurano
reciprocamente costituiscono il nucleo fondamentale dal quale prende vita ogni progetto.
Se l’uomo è animale sociale, e ciò grazie alla capacità di trasmettere idee e sentimenti,
di renderli comuni ai propri simili, la comunicazione, in quanto attività propria dell’essere
umano, rientra a pieno titolo nel campo disciplinare dell’architettura. Forme e spazi architettonici
possono quindi essere strumenti utilizzati per trasmettere contenuti, anche se è bene
precisare che ciò non avviene necessariamente: esistono edifici – o piazze o giardini o infrastrutture
– progettati e costruiti per comunicare qualcosa ed altri ai quali non è stato chiesto
di svolgere tale ruolo.
È bene notare che un edificio – al di là della diffusa retorica della leggerezza e degli spazi dinamici
– è qualcosa di sostanzialmente pesante, immobile, oberato da altre funzioni, mentre
la comunicazione è impalpabile e mutevole. Se questa differenza radicale potrebbe far pensare
ad una certa incompatibilità tra i due mondi, altri fattori giocano invece a favore di una possibile
alleanza.
In particolare due elementi rendono l’architettura un mezzo di comunicazione potenzialmente
efficace:
- il rapporto diretto che intrattiene con l’uomo, un rapporto di natura funzionale (è l’unica che
nasce come realmente “utilizzabile”), fisica (i solai si calpestano, le porte si aprono, i muri si
toccano) ed esistenziale perché, per riprendere le parole di Aldo Rossi, l’architettura è la “scena
fissa” della vita;
- la tendenza che possiede a strutturarsi come un linguaggio, ovvero sistema di segni governati
da una grammatica e da una sintassi.
Proprio l’articolazione linguistica dell’architettura classica, seppur comprensibile solo ad
un’élite colta, può essere considerata la base della sua fortuna nel mondo occidentale.
D’altronde il Movimento Moderno, che decreta perentoriamente la morte della classicità,
nell’urgenza di propugnare la propria rivoluzione rende ancor più stretto il rapporto tra costruzione
e comunicazione. Con la precisa intenzione di fondare un nuovo linguaggio nascono
infatti edifici-manifesto, caricati del compito di trasmettere idee che trascendono il piano architettonico
e quello artistico, per diventare utopie economiche e sociali. Ecco le diverse materializzazioni
di quello che viene idealisticamente definito lo “spirito del tempo”, dalla
neoplasticista Casa Schroeder al suprematismo del Padiglione di Barcellona, dalle proposte
costruttiviste al purismo macchinista della Ville Savoye, nella quale peraltro si intravede la ricerca
di una rinnovata classicità.
Dalla crisi delle avanguardie novecentesche nasceranno la difficoltà e la paura di comunicare
che caratterizzano l’architettura contemporanea: la cooptazione da parte del sistema capitalista
e la dissoluzione di ogni narrazione utopica nel fumo di Auschwitz e in quello di Hiroshima
svuoteranno le forme di ogni significato riducendole a moda, maniera, stile (internazionale);
a ciò si aggiungano gli altissimi standard comunicativi dettati dai mass media, con i quali un
edificio di per sé difficilmente può competere.
Se rimane l’intenzione di fare dell’edificio un manifesto, le nuove avanguardie che si avvicendano
sono però sempre più parziali. Si tratta di “-ismi” via via depotenziati dal compromesso,
dall’anarchia pop di Archigram, tradotta in acciaio e vetro nel Beaubourg di Piano e Rogers,
alla muscolarità high-tech, interpretazione tettonica della rampante economia anni ’80; dal populismo
post-modern – ancora una volta segni senza significato – al decostruttivismo, banalizzante
portavoce architettonico di idee filosofiche, non a caso legate ai concetti di struttura e
linguaggio, fino alla retorica dell’ecosostenibile, racconto sempre politicamente corretto ma talvolta
menzognero delle buone intenzioni di fine/inizio millennio.
Altri scelgono la strada di una radicale astrazione della forma. È un’incomunicabilità programmatica
che conduce a risultati architettonici diversi e talvolta opposti: dall’understatement “sociologico”
di van Eyck, De Carlo, Hertzberger all’autonomia disciplinare di Rossi, Grassi, ma
anche di Eisenman, Meyer, Siza, dal minimalismo raffinato di Zumthor o Souto de Moura a
quello più trendy di H&dM, dalle sculture neo barocche di Gehry a quelle compatte di tanti
spagnoli fino alla blob architecture dell’era computerizzata. L’edificio esprime una logica interna
e specialistica, oppure suscita emozioni, o semplicemente impressiona, colpisce, interroga,
ma difficilmente trasmette in modo esplicito una visione del mondo o una posizione
culturale.È una scelta che pare rinunciataria, ma che spesso non è priva di efficacia, specie
nei confronti di un surplus comunicativo sempre più ingombrante: è il caso, straordinariamente
emblematico per quanto poco conosciuto, della biblioteca pubblica progettata da Giancarlo
Mazzanti a Medellìn, in Colombia. Tre monoliti scurissimi che sembrano scagliati da una
qualche eruzione vulcanica, vengono incastonati dall’architetto sulla sommità di una collina,
circondati dal tessuto caotico di una favela; non rivelano la propria funzione, né minimamente
dichiarano messaggi di carattere sociale o politico. Nella povertà fin troppo comunicativa di
una baraccopoli segnata dal narcotraffico – giochi di bambini, neon guasti e baluginanti, stereo
rimbombanti di rap, panni stesi, spari, grida di venditori – i volumi enigmatici della bilblioteca
sono una pausa silenziosa e pacificante, un mistero da indagare, un buco nero che sembra assorbire
ogni violenza, ogni rumore, ogni ferita.
Nel panorama contemporaneo emergono inoltre quelle che Marco Biraghi definisce le strategie
della realtà: l’architettura diventa mezzo per comunicare la complessità confusa del nostro
presente. E’ la strada intrapresa da Rem Koolhaas: non si tratta di lineare funzionalismo, quanto
piuttosto di una messa in scena cruda, impietosa e talvolta scostante del disordine contaminato
nel quale siamo immersi. Dai dettagli ai masterplan, dalla concezione strutturale all’articolazione
planimetrica, tutto nella produzione dell’architetto olandese e dei suoi epigoni parla di
una realtà fatta di interessi economici contrastanti, di società frammentate eppure vitalissime,
di reti globali che si intersecano, di sopraffazione o di inaspettate coalizioni. Richiamerò qui
dall’ormai estesissima produzione di Koolhas soltanto due episodi progettuali, particolarmente
significativi. Il primo è il cosiddetto Espace Piranesien a Lille, un nodo infrastrutturale sotterraneo
nel quale l’edificio scompare, divorato dai flussi di traffico, dalla rete dei trasporti, dalla
folla composita e scomposta che quotidianamente lo riempie; il paradosso è dietro l’angolo
perché ad un Piranesi originariamente irreale, se ne sostituisce una versione iperrealistica. Il
secondo progetto è la Casa da Musica a Porto: se Koolhaas sembra scegliere la via dell’astrazione
per collocare un segno a scala urbana, l’enorme prisma di calcestruzzo che ne deriva,
non dissimile dalle rocce di Mazzanti, viene squarciato e ritagliato dalla vita che vi si svolge all’interno
e dai rapporti complessi che esso intrattiene con la città; un’ambiguità tra tensione comunicativa
e arbitrarietà formale che ben rappresenta la cifra più attuale dell’architettura
contemporanea.
Bibliografia
- Abitare n. 452 (luglio-agosto 2005), Editrice Abitare Segesta.
- Abitare n. 482 (maggio 2008), Editrice Abitare Segesta.
- M. Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea I, Einaudi, Torino 2008.
- M. Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea II, Einaudi, Torino 2008.
- C. Brandi, Struttura e architettura, Einaudi, Torino 1975.
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- C. Norberg-Schultz, Intenzioni in architettura, Officina, Roma 1977.
- O.M.A., R. Koolhaas, B. Mau, S,M,L,XL, The Monacelli Press, New York 1998.
- L. Prestinenza Puglisi, Introduzione all’architettura, Meltemi, Roma 2004.
- C. Rowe, La matematica della villa ideale, Zanichelli, Bologna 1990.
- R. Venturi, D. Scott Brown, S. Isenour, Imparando da Las Vegas, Cluva, Venezia 1985.