Inaugurazione
mercoledì 30 settembre, h 19,00
Scalinata Borghese
Genova

Spazi in/comunicabili I

Ricognizione critica nello spazio pubblico

Valeria Arena -Giacomo Cassinelli

Molto spesso nel nostro mestiere rischiamo di dimenticarci che cos'è l'architettura,
presi da problematiche sollevate dalla forma, dalla funzione, dall'immagine, dalla percezione.
Sulle riviste tutti i tipi di architettura, dalla contemporanea più avanzata a quella più vernacolare,
sono mostrati candidi ed immacolati (perché meglio si veda il gioco dei materiali e delle
forme) ma scevri e forse addirittura spogli di quello che realmente fa l’architettura: l'uomo, la
vita, le persone. Come se ci fosse uno stacco tra il disegno e l’uso, come se il progetto finisse
con la chiusura del cantiere, come se non ci preoccupassimo di un possibile feedback di controllo
sull'utilizzo degli spazi.
 
 
L’attenzione degli architetti è concentrata sul costruito (sulle sue potenzialità di in/comunicazione),
ma se quest'ultimo determina per lo più spazi privati uguale interesse andrebbe volto
a quello che rimane, all'architettura non materiale, al negativo dell'edificio.
Una società pubblica ha le proprie fondamenta su ciò che non è privato.
La Repubblica è di tutti e l'architettura della res publica mostra come tutti viviamo.
Se lo spazio pubblico è il luogo di incontro per eccellenza tra le persone allora esiste un'architettura
della comunicazione e una dell'in/comunicazione? L’architettura influisce davvero sulle
comunicazioni?
 
Sì e No! È ovvio quanto sia complessa la risposta.
Sì, perché può favorire o meno la comunicazione e la vicinanza tra gli individui sfruttando
"ingredienti" da inserire nel progetto quali: confort visivo, confort uditivo, gestione delle
distanze, ecc.
No, perché molto può fare la gestione politica dello spazio pubblico che a volte ne determina
strettamente gli usi (orari di apertura, pulizia, manutenzione), mentre può essere importante
la predisposizione delle persone all'incontro, così come la loro dimensione economica e
culturale.
Vi sono infatti quegli spazi pubblici che invitano o meno all’incontro e allo scambio interpersonale
a partire proprio dal disegno architettonico. La vicinanza o meno delle sedute, la loro
disposizione, la loro comodità (pensiamo al design antibarbone), ma anche - stupidamente -
la loro presenza o meno.
Vi sono quegli spazi pubblici che sono di richiamo per gli individui e nei quali questi possono
non solo identificarsi, ma anche essere specchio di chi li vive. Spazi che possono subire modifiche
a seconda dell’uso che se ne fa e quindi assumere identità diverse.
Vi sono infine quegli spazi pubblici che non comunicano con quello che hanno intorno, che
sono maglie isolate nella rete urbana. Usiamo di proposito un termine caro agli operatori sociali
(in fondo anche gli architetti sono operatori sociali, anche nel senso che operano, agiscono,
sulla e nella società) così come molti termini del mondo dell’architettura sono stati ormai "sdoganati"
verso altri campi. Magari questi spazi sono stati pensati nei dettagli e nei particolari,
ma purtroppo per la loro propria costituzione e localizzazione non comunicano con ciò che
hanno intorno.
 
 
 
 
Possiamo quindi contrapporre una progettazione "rigida" di spazi ordinati, fissi, anche piacevoli
alla vista (magari privilegiando quella zenitale della planimetria in AutoCad), ma che
non invogliano la sosta e la comunicazione, a una progettazione “fluida” più attenta alla dimensione
umana. Questa attenzione si può concretizzare in una suddivisione degli spazi, forse
non simmetrica, ma in funzione della fruizione; in una maggiore cura per materiali e forme, per
il clima locale (zone in ombra/zone con irraggiamento solare diretto), per una libertà d'uso
maggiore. Il che non necessariamente implica una spesa più alta, ma sicuramente un maggiore
sforzo culturale di chi prende le decisioni, siano esse di disegno o di politica.
Che sta succedendo allo spazio pubblico che abbiamo intorno? Le modifiche che sono in atto
sono davvero frutto di un progetto, di una visione di sviluppo chiara?
Purtroppo verrebbe da dire di no! Purtroppo sembrano proprio essere le piccole cose, i piccoli
cambiamenti apparentemente insignificanti e poco visibili a marcare il passo di un andamento
non totalmente condivisibile. Il design antibarbone e la privazione di sedute della città di Genova
sono davvero provvedimenti di sviluppo turistico (l’unico modo per un forestiero di mangiare
un panino comodamente è sedersi ad un bar privato) o di tutela della popolazione più
anziana d'Italia (la vecchietta che torna a casa con le borse della spesa, se è stanca, che fa?).
 
 
 
 
La privatizzazione, a mezzo di strisce blu di parcheggio, ha raggiunto anche lo spazio per definizione
pubblico e pedonale: il marciapiede. Infischiandosene anche delle barriere architettoniche:
in fondo, se ho una jeep, posso!
 
 
 
 
Purtroppo la tendenza a soprassedere su molti aspetti non si riscontra solo in interventi così piccoli,
ma anche in altri maggiori e sostanziali per la vita di una città come nei cantieri delle molte
piccole piazze che si stanno restaurando. La piazza, lo spazio pubblico, soprattutto quella dei
quartieri residenziali e non quella di rappresentanza, è il tessuto connettivo della società e crediamo
sia proprio su questa che si può misurare la vivibilità o meno di un luogo, la disponibilità
di una società all'incontro, l’apertura ad atteggiamenti diversi da quelli consueti e progettati.

 

Bibliografia

 R. Adams, La collina dei conigli, Rizzoli, Milano 1987.
M. Augé, Nonluoghi, Eleuthera, Milano 2005.
J. G. Ballard, Isola di cemento, Feltrinelli, Milano 2007.
S. Chermayeff - C. Alexander, Spazio di relazione e spazio privato, Il Saggiatore, Milano 1968.
P. Desideri M. Ilardi (a cura di), Attraversamenti, Costa&Nolan, Genova 1997.
H. Hertzberger, Lezioni di architettura, Laterza, Bari 1996.
R. Koolhas, Harvard design school guide to shopping, Taschen, Colonia 2002.
G. Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
C. Sitte, L’arte di costruire la città, Jaca Book, Milano 1981.